tracce della resistenza umana...per un planetarismo antiglobalista
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October 09, 2003
Rispondi per favore, Mr Bush
di Michael Moore
Ho sette domande per te, Mr Bush. Le faccio a nome dei 3000
morti di quel giorno di settembre e le faccio a nome del popolo americano.
Non cerchiamo di vendicarci contro di te. Vogliamo solo sapere cosa
successe, e cosa può essere fatto per portare gli assassini davanti alla
giustizia, cosi da poter prevenire futuri attacchi contro i nostri
cittadini.
1. E' vero che i bin Laden hanno fatto affari con te e con la tua
famiglia per tutti i passati 25 anni?
La maggior parte degli americani potrebbe essere sorpresa di scoprire
che tu e tuo padre conoscete i bin Laden da tanto tempo. Quant'è profondo,
esattamente, il rapporto, Mr Bush? Siete amici stretti o semplicemente
ancora soci d'affari? Salem bin Laden - il fratello di Osama - fu il primo a
iniziare a venire in Texas nel 1973 e ha comprato terra, si è costruito una
casa, ha creato la compagnia di aviazione bin Laden all'aeroporto di San
Antonio.
I bin Laden sono una delle famiglie più ricche dell'Arabia Saudita. La
loro immensa impresa di costruzioni ha praticamente costruito il paese,
dalle strade alle centrali elettriche, dai grattacieli ai palazzi del
governo.
Hanno costruito alcune delle piste di atterraggio che ha utilizzato
tuo papà quando ha fatto la guera del Golfo. Più che miliardari, hanno
cominciato presto a investire in altre imprese in tutto il mondo, inclusa l'
America. Hanno intensi rapporti con Citigroup, General Electric, Merrill
Lynch, Goldman Sachs, e il Fremont Group.
Per il New Yorker, la famiglia bin Laden possiede anche una parte
della Microsoft e del gigante dell'aviazione civile e militare Boeing. Hanno
donato 2 milioni di dollari all'alma mater, Harvard University, e decine di
migliaia al Consiglio per la politica del Medio Oriente, un gruppo guidato
da un ex ambasciatore USA in Arabia, Charles Freeman. Per di più oltre alle
proprietà in Texas, hanno beni immobli in Florida e in Massachusetts. In
breve, hanno bene le mani dentro ai nostri pantaloni.
Purtroppo, come tu sai bene Mr Bush, Salem bin Laden è morto in un
incidente aereo in Texas nel 1988. I fratelli di Salem - che sono circa 50,
Osama incluso - hanno continuato a guidare gli investimenti di famiglia e le
aziende.
Dopo aver lasciato il suo incarico, tuo padre è diventato un
consulente molto ben pagato di un'azienda conosciuta come Carlyle Group -
una delle più importanti fornitrici della Difesa. Uno degli investitori
della Carlyle - per una somma di almeno 2 milioni di dollari - non è altro
che la famiglia bin Laden. Fino al 1994 tu, presidente, hai guidato un'
azienda chiamata CaterAir, posseduta dal Carlyle Group.
Dopo l'11 settembre, il Washington Post e il Wall Street Journal hanno
riportato storie che rivelavano questo collegamento. La tua prima risposta,
Mr Bush, è stata di ignorarli. Poi il tuo esercito di eruditi è entrato in
azione. Questi ultimi hanno detto: non possiamo dipingere questi bin Laden
con lo stesso pennello che usiamo per Osama. Loro hanno rinnegato Osama! Non
hanno niente a che vedere con lui! Questi son bin Laden buoni.
E così i video han cominciato a venir fuori. Mostravano un certo
numero di questi bin Laden "buoni" - inclusa la madre di Osama, una sorella
e due fratelli - che erano con Osama al matrimonio di suo figlio solo sei
mesi e mezzo prima dell'11 settembre. Non era un segreto per la CIA che
Osama bin Laden avesse accesso alla fortuna della sua famiglia (la sua parte
è valutata in un minimo di 30 milioni di dollari), e che i bin Laden,
insieme ad altri sauditi, hanno tenuto Osama e il suo gruppo, al Qaida,
sempre ben finanziati.
Potete farvi un giro sui mezzi di informazione, loro sanno che tutto
quello che ho scritto è vero. Ma paiono impauriti a chiederti, Mr Bush, una
cosa semplice: CHE STA SUCCEDENDO QUI?
Nel caso non capiate quanto bizzarro sia il silenzio dei mezzi di
informazione nei riguardi dei collegamenti Bush-binLaden, lasciatemi
tracciare un'analogia con il come la stampa o il Congresso avrebbe trattato
qualcosa di simile se una tal scarpa si fosse trovata al piede di Clinton.
Se, dopo gli attacchi terroristici avvenuti all'edificio federale di
Oklahoma, si fosse scoperto che il presidente Bill Clinton e la sua famiglia
avevano rapporti d'affari con la famiglia di Timothy McVeigh, come pensate
che il partito Repubblicano e i mezzi di informazione avrebbero trattato la
cosa?
Pensate che almeno un paio di domande, tipo "ma di cos'è che si
tratta?", sarebbero state fatte? Siate onesti, sapete la risposta. Avrebbero
fatto più di un paio di domande. Avrebbero spellato vivo Clinton e gettato
la sua carcassa a Guantanamo Bay.
2. Qual è lo "speciale rapporto" tra i Bush e la famiglia reala
saudita?
Mr Bush, i bin Laden non sono i soli sauditi con i quali tu e la tua
famiglia abbiate rapporti personali. L'intera famiglia reale pare essere
indebitata con voi, o la cosa è al contrario?
Il principale fornitore di petrolio agli USA è l'Arabia Saudita, che
possiede le maggiori riserve al mondo. Quando Saddam Hussein invase il
Kuwait nel 1990, furono i Sauditi che si sentirono minacciati, e fu tuo
padre, George Bush I, che corse in loro salvataggio. I sauditi non l'hanno
mai dimenticato. Haifa, moglie del principe Bandar, l'ambasciatore saudita
negli Stati Uniti, ha detto che tua madre e tuo padre, presidente, sono come
"mia madre e mio padre. So che se avessi mai bisogno, di qualunque cosa,
potrei andare da loro".
La maggior parte dell'economia americana è costruita sul denaro
saudita. Hanno investito migliaia di miliardi di dollari nel nostro mercato
azionario, e altre migliaia di miliardi di dollari sono nelle nostre banche.
Se decidessero improvvisamente di togliere questi soldi, le nostre società,
i nostri istituti finanziari, crollerebbero a picco causando una crisi
economica mai vista prima. Aggiungendo che il milione e mezzo di barili di
petrolio dei quali abbiamo quotidiana necessità, di provenienza saudita,
potrebbe svanire per medesimo capriccio reale, e cominciamo a vedere come
non solo voi ma tutti noi siamo dipendenti dalla Casa Saud. George, è una
bella cosa per la nostra sicurezza nazionale? Per chi questo è ottimo? Per
voi? Per il popolo?
Dopo l'incontro con il principe saudita nell'aprile 2002, tu ci hai
felicemente detto che avevato stabilito "un solido legame personale" e che
avevate passato "un sacco di tempo a tu per tu". Di cose ci volevi
rassicurare? O volevi solo ostentare la tua amicizia con un gruppo di
dittatori che rivaleggiano coi talebani in soppressione dei diritti umani?
Perche un tale doppio standard?
3. Chi ha attaccato gli Stati Uniti l'11 settembre - un tipo in
dialisi da una cava dell'Afghanistan, o la tua amica Arabia?
Scusami, Mr Bush, ma qualcosa qui non ha senso.
Ci hai ripetuto alla nausea che è stato Osama bin Laden il
responsabile degli attacchi. Lo credevo. Ma poi ho cominciato a sentire
strane storie sui reni di Osama. Improvvisamente non sapevo più a chi o a
cosa credere. Come poteva un tipo seduto in una grotta in Afghanistan,
agganciato a una dialisi, aver diretto e supervisionato tutte le azioni di
19 terroristi, che sono stati per due anni negli Stati Uniti, pianificando
poi così perfettamente il dirottamento di 4 aerei con tanto di garanzia che
tre di essi sarebbero finiti perfettamente sul loro obiettivo? Come ha
controllato, organizzato e supervisionato questo tipo di attacco? E come ha
comunicato? Con due barattoli e uno spago?
I titoli strillavano il primo giorno, e ancora oggi due anni dopo: "i
terroristi attaccano gli Stati Uniti". Terroristi. Mi sono fatto domande su
questa parola per molto tempo, così, George, fammi fare una domanda: se 15
dei 19 dirottatori fossero stati nord coreani, non sauditi, e avessero
ammazzato 3.000 persone, credi che i titoli del giorno dopo sarebbero stati:
"la Corea del Nord attacca gli Stati Uniti"? Ovviamente sì. O se fossero
stati 15 iraniani o 15 libici o 15 cubani, penso che convenzionalmente si
sarebbe scritto "l'Iran (o la Libia o Cuba) attacca gli Stati Uniti".
Tuttavia, dopo l'11 settembre, avete per caso letto qualche titolo, sentito
qualche giornalista, affermare: "l'Arabia Saudita ha attaccato gli Stati
Uniti"?
Certo che no. Così la mia domanda deve - deve proprio - esser fatta:
perché no? Perche quando il Congresso ha svolto la proprio inchiesta sull'11
settembre tu, Mr Bush, hai censurato 28 pagine che trattavano il ruolo
saudita nell'attacco?
Vorrei gettare qui un'ipotesi: e se l'11 settembre non fosse stato un
attacco "terroristico" ma, piuttosto, un attacco militare contro gli Stati
Uniti? George, apparentemente sei stato un pilota una volta - quant'è
difficile colpire una costruzione di cinque piani a più di 500 miglia l'ora?
Il Pentagono è alto solo 5 piani. A 500 miglia l'ora, se i piloti non
fossero stati perfetti anche di un solo capello, l'aereo si sarebbe infilato
nel fiume. Non si diventa così esperti nel guidare i jumbo jet prendendo
lezioni da un video game in qualche scuola del cavolo dell'Arizona. Si
impara nell'aviazione militare. Un certo tipo di aviazione militare.
L'aviazione militare saudita?
4. Perché hai permesso a un jet privato saudita di volare negli USA
nei giorni dopo l'11 settembre caricando i membri della famiglia bin Laden e
portandoli fuori dallo Stato, senza che l'FBI potesse fare ricerche?
Dei jet privati, sotto la supervisione del governo saudita - e con la
tua approvazione - hanno avuto il permesso di volare nei cieli americani,
quando viaggiare in aereo era proibito, e hanno portato 24 membri della
famiglia bin Laden prima "in un luogo segreto nel quale si teneva una
riunione, in Texas". Poi sono volati a Washington DC, e a Boston. Per
concludere, il 18 settembre, sono volati tutti a Parigi, dove gli ufficiali
Usa non potevano raggiugerli. Non sono mai stati interrogati davvero. E'
assurdo. Potrebbe essere possibile che almeno uno dei 24 bin Laden sapesse
qualcosa?
Mentre a migliaia si sono trovati bloccati da qualche parte non
potendo volare, se potete dimostrare di essere uno stretto parente del più
grande assassino della storia degli USA, avete vinto un viaggio gratis!
Perché Mr Bush hai permesso che succedesse?
5. Perché stai proteggendo i diritti del Secondo Emendamento di
potenziali terroristi?
Mr Bush, nei giorni dopo l'11 settembre, l'FBI ha cominciato a
controllare se tra 186 "sospetti" che i poliziotti avevano arrestato nei
primi 5 giorni dopo l'attacco qualcuno avesse comprato armi nei mesi
precedenti l'11 settembre (due di loro l'avevano fatto). Quando John
Ashcroft l'ha saputo ha immediatamente fatto interrompere la ricerca.
Ha detto all'FBI che questi documenti segreti potevano essere usati a
quel tempo per comprare armi ma non per un controllo da parte dell'FBI.
Mr Bush, non puoi essere serio! La tua amministrazione è veramente
così immersa nelle armi e così profondamente in mano alla National Rifle
Association? Amo davvero come sei riuscito a prendere possesso di centinaia
di persone, acciuffandole dalle strade senza avviso e motivo, trascinandole
in prigione, togliendo loro la possibilità di contattare legali e famiglie,
e poi, per la maggior parte di loro, spedirle fuori dal paese con semplici
accuse sull'immigrazione.
Gli hai annullato la protezione garantita dal Quarto Emendamento
facendo ricerche senza diritto e detendendoli, i diritti garantiti dal Sesto
Emendamento a un processo a porte aperte e a una giuria equa, e ai diritti
del Primo Emendamento di parlare, riunirsi, dissentire e praticare la
propria religione. Ritieni di avere il diritto di cacciare semplicemente via
tutti i loro diritti, ma quando si tratta del diritto del Secondo
Emendamento di possedere un AK-47- oh no! Questo diritto devono averlo - e
difenderai il loro diritto di avere quest'arma.
Chi, Mr Bush, sta davvero aiutando i terroristi qui?
6. Sapevi che, mentre eri governatore in Texas, i talebani sono venuti
in Texas per incontrarsi con i tuoi amici delle compagnie del petrolio e del
gas?
In accordo con la BBC, i Talebani sono venuti in Texas mentre tu eri
governatore per incontrarsi con l'Unocal, un gigante dell'energia e della
produzione di petrolio, per discutere della volontà dell'Unocal di costruire
un oleodotto che passasse per il Turkmenistan e per l'Afghanistan
controllato dai talebani e per il Pakistan.
Mr Bush, di che si trattava?
Apparentemente non ha mai attraversato la tua mente che vi fosse un
problema, nonostante i talebani fossero il regime più repressivo e
fondamentalista del pianeta. Che ruolo hai esattamente avuto nell'incontro
dell'Unocal con i Talebani?
In base a diversi resoconti, i rappresentanti della tua
amministrazione hanno incontrato i Talebani e hanno concordato su alcuni
argomenti con loro durante l'estate del 2001. Quali erano questi argomenti,
Mr Bush? Stavate discutendo la loro proprosta di consegnare bin Laden? Li
stavate minacciando con l'uso della forza? O stavate loro parlando di un
oleodotto?
7. Cos'era esattemente quell'espressione sulla tua faccia in quella
classe della Florida, in quel mattino dell'11 settembre, quando il tuo capo
del personale ti disse "l'America è sotto attacco"?
Il mattino dell'11 settembre, hai giocato a golf poi sei andato in una
scuola elementare della Florida per leggere ai bimbi piccoli. Sei arrivato
nella scuola dopo che il primo aereo aveva colpito la torre nord di New
York. Sei entrato in classe intorno alle 9 e il secondo aereo ha colpito la
torre sud alle 9.03. Solo pochi minuti dopo, mentre stavi seduto dinnanzi
alla classe dei bimbi, il tuo capo del personale, Andrez Card, è entrato
nella classe e ti ha sussurrato all'orecchio. Card ti stava, apparentemente,
dicendo del secondo aereo e sul fatto che eravamo "sotto attacco".
E' stato in quel momento che la tua faccia ha preso un'espressione
distante, non glaciale ma apparentemente paralizzata. Nessuna emozione è
emersa. E poi. ti sei semplicemente seduto. TI sei seduto là per altri 7
minuti circa non facendo nulla.
George, cosa stavi pensando? Cosa significava quell'espressione sulla
tua faccia?
Stavi pensando che avresti dovuto prendere sul serio i rapporti che la
CIA ti aveva dato il mese prima? Ti era stato detto che al Qaida stava
pianificando attacchi contro gli Stati Uniti e che sarebbero probabilmente
stati usati aerei.
O eri solo spaventato da fartela sotto?
O stavi solo pensando "Innanzitutto non volevo questo lavoro" Questo
doveva essere il lavoro di Jeb: lui era il prescelto" Perché io? Perché io,
papà?"
O forse, ma forse, stavi là seduto in quella classe pensando ai tuoi
amici sauditi, sia ai reali che ai bin Laden. Persone che sapevi sin troppo
bene che non avrebbero combinato nulla di buono. Quali domande sarebbero
state fatte? Che sospetti si sarebbero fatti strada? Sarebbero riusciti i
democratici a scavare nel passato della tua famiglia e dei rapporti con
queste persone (no, non preoccuparti, nessuna possibilità che succeda!)?
Uscirà mai la verità?
E mentre sono in questo.
Pericolo - multimilionari in fuga.
Ho sempre pensato che fosse interessante che la strage dell'11
settembre fosse stata presumibilmente commesso da un multimilionario.
Diciamo sempre che è stata commessa da un "terrorista" o da un
"fondamentalista islamico" o da un "arabo", ma non abbiamo mai definito
Osama con il suo giusto titolo: multimilionario. Perché non abbiamo mai
letto un titolo con su scritto "3000 persone uccise da un multimilionario"?
Sarebbe stato un titolo corretto, non è vero?
Osama bin Laden ha un patrimonio di almeno 30 milioni di dollari: è un
multimilionario Così perché non è stato questo il modo nel quale abbiamo
visto questa persona, come uno dannatamente ricco che ammazza la gente?
Perché non è diventato questo il criterio per definire i potenziali
terroristi? Invece di correre dietro a sospetti arabi, perché non abbiamo
detto "oh mio Dio, un multimilionario ha ucciso 3000 persone! Becchiamo i
multimilionari! Mettiamoli in galera tutti! Non importano le accuse! Nessun
processo! Deportiamo i milionari!"
Tenere al sicuro l'America
Il Patriot Act e la definizione di combattenti nemici sono solo un
suggerimento di ciò che Bush ha in serbo per noi. Ad esempio, considerata un
'idea originale dell'Ammiraglio John Poindexter, un artefice dell'
Iran-contra, e della Defence Advanced Research Projects Agency (Darpa): "la
politica delle analisi del mercato", che il governo ha messo nel suo sito
web.
Apparentemente, Poindexter ha ragionato sul fatto che i mercati futuri
avevano lavorato tanto bene per gli amiconi di Bush alla Enron che avrebbe
potuto adattare le previsioni al terrorismo. Quindi le persone avrebbero
potuto investire in ipotetici contratti futuri invocando la possibilità del
verificarsi di determinati eventi, tipo: "l'assassinio di Yasser Arafat"o
"il rovesciamento di re Abdullah II di Giordania". Altre azioni sul futuro
sarebbero state disponibili sull'andamento dell'economia, sulla stabilità,
sul coinvolgimento militare in Egitto, Iran, Iraq, Israele, Giordania,
Arabia Saudita, Siria e Turchia. Tutti, ovviamente, paesi collegati al
petrolio.
Questa proposta di mercato è durata circa un giorno dopo essere stata
rivelata al Senato. I senatori Wyden e Dorgan hanno protestato per via della
richiesta da parte del Pentagono di 8 milioni di dollari e Wyden ha detto,
"Il mercato commercia possiblilità, queste fanno rivoltare lo stomaco perché
pare un passo nuovo per usare le tasse dei contribuenti lucrando nella
guerra al terrorismo". Come risultato della protesta, Poindexter è stato
rimosso.
Dare a Saddam le chiavi di Detroit
A Las Vegas, un blindato è stato usato per distruggere lo yogurt
francese, il pane francese, le bottiglie di vino francese, la Perrier, le
foto di Chirac, una guida di Parigi e, il massimo, tutte le fotocopie della
bandiera francese. La Francia era il paese perfetto da combattere. Se siete
un'azienda che offre notizie via cavo, perché pagare notizie senza prezzo
per investigare sul se l'Iraq avesse davvero armi di distruzione di massa
quando puoi scrivere una storia su quanto son di merda i francesi?
Fox News ha guidato la carica per collegare Chirac a Saddam Hussein,
mostrando vecchi montaggi dei due uomini insieme. Non importava che l'
incontro si fosse svolto negli anni 70. L'emittente non si è preoccupata di
mandare in onda il video di quando Saddam fu presentato con una chiave della
città di Detroit, o il film dell'inizio delgi anni '80 nel quale Donald
Rumsfeld faceva visita a Saddam a Baghdad per discutere i progressi della
guerra tra Iraq e Iran. Il video di Rumsfeld che abbracciava Saddam non era
apparentemente degno di essere mandato altrettanto in onda a ciclo continuo.
Non era degno di essere mostrato nemmeno una volta. Ok, forse una volta. Da
Oprah.
Tradotto da Nuovi Mondi Media
Fonte:
http://www.guardian.co.uk/michaelmoore/story/0,13947,1056922,00.html
9.10.03
March 10, 2003
Come si sente? Come si sente a vedere che l'orrore scoppia nel tuo cortile e
non nella sala del vicino?
Come si sente con la paura che stringe il petto,con il panico provocato
dall'assordante rumore, le grida senza controllo, gli edifici che rovinano,
questo odore terribile che si insinua fin nel fondo dei polmoni, gli occhi
degli innocenti che camminano coperti di sangue e polvere?
10.3.03
March 09, 2003
The Reemergence of Balance-of-Power Politics
di Walden Bello
People speak and write today about feelings of utter powerlessness to prevent the coming war. So powerful is the US. And so determined to strike. Impotence in the face of the supremely powerful. With our imagination limited by memories of the superpower standoffs and
[edit]
[3/6/2003 7:30:21 PM | claudio tullii]
9.3.03
March 08, 2003
The Reemergence of Balance-of-Power Politics
di Walden Bello
People speak and write today about feelings of utter powerlessness to prevent the coming war. So powerful is the US. And so determined to strike. Impotence in the face of the supremely powerful. With our imagination limited by memories of the superpower standoffs and
8.3.03
March 06, 2003
The Reemergence of Balance-of-Power Politics
di Walden Bello
People speak and write today about feelings of utter powerlessness to prevent the coming war. So powerful is the US. And so determined to strike. Impotence in the face of the supremely powerful. With our imagination limited by memories of the superpower standoffs and ambiguous victories and defeats of the Cold War period, it is tempting to see the current situation as unique.
Yet the world has been here before. In the summer of 1940, after the fall of France, when Nazi Germany’s determined drive to global dominance seemed unstoppable by any possible combination of forces. In the Europe of the early 1800’s, when a seemingly invincible Napoleon put to rout in battle after battle any military alliance its many foes could muster.
The last few years and the coming ones have been and will be bad for world peace. They are, however, rich in lessons about international power relations. And the lessons are not all grim.
Hegemony and Insecurity
To be sure, the first lesson is discouraging: that unchallenged superpower status stimulates conflict, not peace. This did not seem so clear in the immediate aftermath of the Cold War. Then, there was widespread in the West an expectation that the US would use its sole superpower status to undergird a multilateral order that would institutionalize its hegemony but assure an Augustan peace globally. Even some people not enamored of the United States speculated that with superpower rivalry gone and all other potential rivals taking themselves out of the competition, Washington’s quest for military superiority and strategic advantage would slow down. Europe, Japan, and China seemed ready to settle down to a condition of controlled competition in the economic sphere while accepting long-term American dominance in the security area.
In fact, as the nineties rolled on, it became clear that what the end of the Cold War ushered in was a volatile period more dangerous than the Cold War, when the superpower standoff warded off big wars, contained smaller wars, and gave relations among states a certain predictability. The instability of the new era did not stem primarily from the emergence of “irrational” non-state actors that were prepared to engage in “asymmetric warfare” against conventionally powerful state actors, though many Beltway intellectuals made their names painting terrorists as the greatest threats to global peace and stability in the post-Cold War era. It came from the transformation of the balance of power in the global state system.
The Balance of Power
The balance of power among states is the subject of John Mearsheimer’s magnum opus The Tragedy of Great Power Politics. Regarded as the definitive work on the subject, the book argues persuasively that in all balance of power systems, great powers aim not so much to achieve a defensive balance against their rivals as to achieve a significant degree of military and political advantage over them. Mearsheimer is also correct that “bipolar” systems such as the US-Soviet faceoff that dictated the dynamics of the Cold War period are more stable and less likely to break down than “multipolar” systems like the pre-Word War II situation, which was marked by relative equality among a number of powerful states.
What Mearsheimer fails to tell us, however, is that the situation most productive of conflict, tension, and instability is one where there is one overwhelmingly dominant power surrounded by a number of midget powers--meaning today’s world. He quotes with approval Kant’s comment that “It is the desire of every state, or of its ruler, to arrive at a condition of perpetual peace by conquering the whole world, if that were possible.” Yet he does not seem to appreciate the fact that Kant’s insight is perhaps of greatest relevance in the post-Cold War world, where American military and political preponderance is unmatched.
This intellectual failure is jarring, and it stems from a primordial belief that Washington, unlike other great powers, is not just motivated by naked realpolitik but by the desire for a benign global order as well. These ideological blinders prevent Mearsheimer and many other American intellectuals from appreciating the fact that the US has switched its role from that of being an “offshore balancer” against would-be hegemons like Hitler and the former Soviet Union to being itself an aggressive power bent on achieving world hegemony.
The Unilateralist Conjuncture
Many critics of US power, for their part, attribute George W. Bush’s unilateralism to the self-centered, provincial worldview of the American right. This explanation confuses cause and effect. Bush’s unilateralist ideology is a product of a unique structural conjuncture: the consolidation of the civilian-military “defense establishment” that won the Cold War as the dominant faction of the US elite and the disappearance of an effective countervailing force to US power in the global state system.
To mask its shift from containment to hegemony, however, the defense establishment needed a rationale, and the last decade saw its invoking a succession of actors to fill the role vacated by the Soviet Union—North Korea, China, Al Qaeda, the “Axis of Evil.” Paying very little respect to the actual state and capacity of the targeted regimes, this process was embarrassingly opportunistic and failed to achieve credibility even among a critical mass of its prime target group, the American people. From this perspective, the September 11 attack was a godsend that consolidated domestic support for the open-ended and preemptive unilateralist interventionism that was articulated in George W. Bush’s historic speech on Sept. 17, 2002.
As for the multilateralist paradigm, this was never a serious alternative entertained by any significant faction of the US elite except perhaps for marginalized old liberal circles and personalities like Jimmy Carter. Bill Clinton, who distrusted fellow Democrat Jimmy Carter, may have invoked multilateralist rhetoric but he did not hesitate to act unilaterally--as he did when he ordered the bombing of Serbia despite European objections during the Kosovo crisis.
Containing Washington
That is the bad news. The good news is that even when backed up by overwhelming force, unchallenged hegemony is a transient state. As was the case in Napoleonic Europe, lesser powers may calculate that a posture of compliance or subservience may be necessary in the short-term, but they know that it is disastrous as a long-term strategy, for it is simply an invitation to more aggression.
This is what the UN Security Council standoff over Iraq is all about. It is less about Saddam’s compliance and more about containing a hegemon that feels it has a blank cheque to intervene, topple, and depose anywhere in the world with the dangerous rationale of preventing a threat, no matter how abstract, from “reaching the American people.” If France and Germany at this point seem willing to go the distance in stubbornly blocking the US from waging war on Iraq, it is to discourage future US moves that might pose a more direct threat to their national security. Cultural bonds or a sense of generosity for being liberated from Nazism 50 years ago are weak rationales when compared to the fear of encouraging aggressive ambitions that could translate into economic bullying in the short term and military blackmail in the long term.
However the current Iraq crisis is resolved—and indeed France and Germany may yet capitulate under pressure—it has already accelerated the decline of the Atlantic Alliance of the Cold War era, a development captured in US Secretary of Defense Donald Rumsfeld’s disdainful comments about recalcitrant “Old Europe.” And it marks the rebirth of balance of power politics, with the lesser powers moved into active cooperation to contain US aggression. Joining France and Germany in what is emerging as this era’s version of the pre-World War I Triple Alliance are China and Russia, with the more weighty developing countries like Brazil and perhaps even South Korea eventually hopping on board. Though individual members may change, this coalition is likely to be long-term. And, unlike currently, where its real dynamics are clouded by the debate over the question of Saddam’s alleged possession of weapons of mass destruction, its basis will eventually be more clearly articulated as the defense of national and global security against the American threat.
Global Resistance
This reemergence of a system of containment at the level of the state system must be seen in the context of the advance of other movements of global resistance. There are, of course, the Islamic fundamentalists, who have made tremendous gains among the Arab and Muslim masses owing to the US mailed-fist response to September 11 events and its alliance with Israel. The coming war on Iraq is likely to drastically weaken the so-called moderate regimes in the Arab and Muslim world and eventually give rise to governments uncompromising in their resistance to US interventionism. Not too long from now, we may see radical Islamic regimes in Pakistan, Saudi Arabia, and Indonesia.
Then there is the burgeoning global movement against corporate-driven globalization, which has, in the last year and a half, fused with the anti-war movement to form a powerful anti-US front at the level of international civil society. Like the Islamic fundamentalist movement, elements of this diverse movement are likely to assume state power in a number of countries in the coming years. Indeed, they already have in a number of Latin American countries—in Brazil, Venezuela, and Ecuador.
Islamic fundamentalism and the anti-corporate globalization movement will not mainly function to add diplomatic and material weight to the containment of the US. What they will do is something equally important though, and that is to erode the legitimacy of the American enterprise and expose it for what it is: a naked bid for hegemony. This is critical since the staying power of hegemons is ultimately based on the perception of their legitimacy. The next few years and decades are likely to witness ever more brazen efforts to reorder the world to better serve US interests. But they will also consolidate an anti-US coalition of the less powerful while accelerating the spread of anti-US movements in global civil society. This is not the unchallenged hegemony that Washington aspires for, but the classic dynamics of overreach, of overextension. For if there is one unambiguous lesson in the history of nations, it is that empire is transient while resistance is permanent.
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6.3.03
Le armate dei guerrieri just in time
Intervista di Stefano Sensi a Mike Davis
La volontà imperiale degli Stati uniti di difendere un modello di sviluppo e la crescita di un movimento globale di protesta contro l'annunciata guerra contro l'Iraq. Parla lo storico e urbanista statunitense Mike Davis
Nel Golfo saranno impiegati nuovi sistemi di armamento e vedremo all'opera piccole e autonome unità di combattimento dotate di sofisticati gadget elettronici per elaborare in tempo reale il flusso continuo di informazioni e così modificare gli obiettivi militari
La galassia americana di fronte alla vigilia di una guerra che rappresenta uno shift epocale sia per quanto riguarda le stategie e le tecnologie militari che verranno impiegate, ma anche per il passaggio senza indugi ad una politica «imperiale» da parte del presidente George W. Bush dopo il periodo soft rappresentanto da Bill Clinton. Allo stesso tempo gli Usa sono il paese in cui si manifesta un movimento di «resistenza» che vive una fase di prodigioso successo. Cosa si agita in queste due «Americhe» apparentemente sempre più distanti a causa della «guerra al terrorismo»? Ne abbiamo parlato a Los Angeles con Mike Davis, lo storico e urbanista noto per alcuni saggi dedicati allo sviluppo metropolitano - La città di quarzo (manifestolibri) e Geografia della paura (Feltrinelli), dedicati entrambi a Los Angeles, e il non ancora tradotto Dead Cities -, nonché di studi sulle politiche repressive dell'immigrazione da parte dell'establishment - I latinos alla conquista dell'America (Feltrinelli) - o di grandi affreschi sulla nascita delle politiche imperialistiche - Olocausti vittoriani (Feltrinelli). Ed è quindi ovvio che il punto di partenza dell'intervista non possono che essere le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio.
Cosa pensi di questo movimento pacifista?
Sono affascinato dalla potenza espressa da questo movimento. Non mi riferisco solo alle dimensioni raggiunte ma anche, e soprattutto, all'eterogeneità e diversità che esprime. Impressionante é la sua diffusione capillare. Sono appena tornato dall'Arizona dove ho assistito ad incredibili manifestazioni in piccoli centri sperduti. A Flagstaff, per esempio, ci sono stati, sabato 15 Febbraio, migliaia di dimostranti in piazza, una cifra che considerato il numero totale di abitanti di questa piccola città ne fa probabilmente uno dei posti a più alto tasso di «resistenti» di tutto il pianeta. Persino qui a Los Angeles, nei sobborghi opulenti di Orange County, capitale mondiale del conservatorismo repubblicano e uno posti più conformisti di tutti gli Stati uniti, assistiamo a forme di dissenso diffuso che sorgono nei posti più inaspettati. Mi riferisco, ad esempio, alle peace walks all'interno dei centri commerciali che mettono magicamente insieme centinaia di attivisti ed incuriositi consumatori. Un fatto ampiamente ignorato dai media é la risonanza delle tematiche pacifiste all'interno del mondo sindacale. La maggior parte dei quadri, e questo vale anche per i sindacati che contano milioni di iscritti, si è infatti schierata decisamente contro la guerra.
C'é poi la dimensione globale, transnazionale, di questo movimento. Stiamo assistendo all'affermarsi del più grosso movimento globale di protesta mai esistito nella storia dell'umanità.
Il «New York Time» ha scritto che dal 15 febbraio ci sono due superpotenze nel mondo: gli Usa e l'opinione pubblica mondiale. Sei d'accordo con questa analisi?
Per quanto io stesso, come ho detto, sia estasiato dalla dimensione di questo movimento, penso che l'analisi del New York Times ne sopravvaluti il reale peso. Fino a che non riusciremo ad inceppare la macchina di guerra, la seconda superpotenza di cui parla il Times ha i piedi d'argilla. Certo, manifestazioni come quelle del 15 hanno un incredibile effetto nel catalizzare la scesa in campo di un sempre maggior numero di forze, ma se non si passa, come mi sembra stia succedendo in Europa, ad una fase di intensa attività di disobbedienza civile di massa, siamo destinati ad incidere solo in maniera marginale. Ma è in Europa che si sta giocando una delle partite più importanti. Se il movimento della pace riuscisse a far entrare in crisi uno dei tre governi - quello inglese, l'italiano o lo spagnolo - che sostengono Bush allora sì che si scatenerebbe un effetto domino con implicazioni importantissime. In Inghilterra mi sembra che i presupposti ci siano, visto l'opposizione sempre più articolata e imponente che sta crescendo contro Blair, persino all'interno del Labour party . Il movimento italiano sta mostrando un'incredibile creatività e determinazione con la campagna di boicottaggio dei «treni della morte» e chissà ...
E' una situazione fluida e dagli esiti imprevedibili. Forse non saremo in grado di evitare l'inizio della guerra, ma ne possiamo però condizionare la durata. Bush e Rumsfeld sperano ad esempio che quella contro l'Iraq sarà una guerra lampo. Nella loro lucida follia, si illudono che in pochi giorni sconfiggeranno l'esercito iracheno e che le truppe americane saranno accolte a braccia aperte dai festosi iracheni liberati. Sperano cioè in un «miracolo» che possa mettere a tacere il dissenso rispetto alle loro politiche espansioniste. Quello che è ragionevole supporre è invece che chi ha manifestato contro la guerra in questo periodo ritorni a casa così facilmente.
Parlando delle nuove tecnologie che verranno impiegate nella guerra, hai recentemente parlato di una vera rivoluzione in corso ....
Non sono io a dirlo. Sono gli strateghi del Pentagono che affermano che la prima guerra del Golfo, nonostante l'incredibile campagna mediatica sui bombardamenti «chirurgici», non è stata la prima guerra «moderna», quanto l'ultima guerra combattuta secondo uno schema tradizionale. Curiosando fra quello che le think-tanks militari hanno elaborato negli ultimi tempi ci si accorge che tutti gli anni `90 sono stati attraversati da una fondamentale ridefinizione di tattiche e strategie che ha portato a quella che Rumsfeld ha, appunto, definito «la rivoluzione». La guerra in Iraq dovrebbe rappresentare il banco di prova di questo cambio di paradigma. La novità non viene solamente dall'ulteriore salto tecnologico delle armi che saranno impiegate - bombe che, grazie alla tecnologia laser, sono in grado di colpire con precisione millimetrica, l'utilizzo di micronde e campi elettromagnetici per mettere ko comunicazioni o, infine, l'uso di aerei telecomandati. No, il cambiamento viene da un mutamento di paradigma che sposta l'organizzazione militare verso un modello a rete, un modo di fare la guerra che viene definito network centric warfare. Si applicano cioè alla macchina bellica i paradigmi che sono alla base dell'economia postfordista.
Infatti, il modello di riferimento, proposto dalle teste d'uovo del Pentagono è proprio quello leggero e «minimalista» che governa un colosso della distribuzione americana come la catena Wal-Mart. Si importano cioè quelle strategie, il just in time ad esempio, che regolano l'odierna produzione nella new economy. Ci si avvale infatti di quei principi di sincronizzazione, in real-time, dei processi produttivi e distributivi che fanno si che l'operatore di cassa, con la semplice lettura ottica del codice a barra di una merce qualsiasi, intervenga in maniera istantanea su produzione e stoccaggio dell'articolo venduto. Tradotto in termini militari, i rivoluzionari del Pentagono pensano di creare unità di combattimento leggere, ri-assemblate in tempo reale, che somministrino potenza letale commisurata a quelle che sono le immediate contingenze del campo di battaglia. Tale modello é reso oggi possibile grazie all'immensa potenza in termini di capacità di flusso di informazione delle reti moderne, coniugata con un esteso uso di tecnologie di videosorveglianza e monitoraggio tramite l'uso di una nuova generazione di gadgets elettronici come sensori miniaturizzati e minuscole videocamere robotizzate.
Ma il modello postfordista fornisce anche lo schema organizzativo dei processi decisionali. Nel nuovo paradigma leggero, le unità di combattimento sarebbero organizzate secondo un modello a reti orizzontali in uno stato di fluida ricombinazione permanente. Unità autonome che hanno potere decisionale immediato senza coinvolgimento della tradizionale catena di comando.
Si parla anche di nuovi approcci tattici..
E' previsto un utilizzo della forza non più secondo un modello lineare, fatto di incrementi progressivi. Si farà infatti uso di una strategia shock and awe, che procede attraverso l'erogazione di inaudita potenza distruttrice a sbalzi. Un modello in cui da una parte si isola il nemico polverizzando le infrastrutture della comunicazione e dall'altra si incrementa il caos del teatro di guerra procedendo ad una sistematica terrorizzazione della popolazione civile. E' ovvio che, al di là di qualsiasi considerazione etica, queste strategie pongono problemi di ordine logistico. Unità leggere ed autonome, così criticamente dipendenti dalla stabilità del flusso informazionale locale/globale, sono anche ovviamente assai vulnerabili. Cosa, infatti, potrebbe succedere se nel bel mezzo della battaglia tali networks venissero hackerati da terroristi, o molto più semplicemente da qualche brufoloso quindicenne del Midwest? In realtà il Pentagono affianca a questo schema «leggero» un segreto backup (piano di emergenza) «pesante»: il nucleare. Di fatto, è questo, il poco pubblicizzato obbiettivo reale che muove la crociata dei rivoluzionari. Rompere il tabù nucleare, far passare cioè nell'opinione pubblica, la legittimità di un uso sempre più routinario delle armi nucleari. Siamo di fronte ad un drammatico shift di paradigma, una escalation in cui l'uso del nucleare non è più la estrema ratio a cui ricorrere.
C'é infine un ulteriore terrificante scenario. Un analisi di quanto pubblicato negli ultimi anni sulla letteratura scientifica del settore, rivela come la ragione intrinseca per cui il governo americano ha attivamente sabotato la creazione di un trattato internazionale per la limitazione dello sviluppo di armi biologiche é perchè gli Usa stanno appunto lavorando alacremente alla messa a punto di un sempre più potente e devastante biological warfare.
Quale sarà il ruolo della «guerra di propaganda» in questo mutamento delle strategie militari?
Anche su questo versante i rivoluzionari del Pentagono si accingono ad operare un sostanziale salto di paradigma. Stiamo assistendo in questi giorni all'addestramento militare, un vero e proprio combat training, di centinaia di giornalisti dei principali media nazionali. Questa volta dunque, i media saranno presenti sul campo di battaglia. Una gigantesca operazione di public relation da parte del Pentagono. E' ovvio che dobbiamo farci ben poche illusioni su quelli che saranno i livelli di obbiettività offerti da questi operatori mediatici con l'elmetto.
E cosa accadrà negli Stati uniti?
Per prima cosa va registrata l'assenza dalla scena pubblica dell'area liberal del partito Democratico. A differenza di quanto succedeva negli anni `60, il movimento della pace non ha saputo ancora catalizzare, come avvenne allora, quelle forze della sinistra del partito democratico che fecero del rifiuto alla guerra la piattaforma per la candidatura di Kennedy. La cosa grave non è che la maggior parte dei repubblicani si sono persi dietro a questo folle avventurismo dell'amministrazione Bush, ma è che il partito Democratico ha perso qualsiasi contatto con la propria base.
Inoltre, negli Usa stiamo assistendo ad involuzione autoritaria senza precedenti. Dico senza precedenti, non perchè gli Stati uniti non abbiano nel passato conosciuto fasi di repressione di pari intensità. Da un punto di vista strettamente giuridico, le incredibili limitazioni alle garanzie e libertà personali contenute nell'Usa Patriot Act non sono certo peggiori di quanto accadde negli anni `20 o '50. Oggi ci troviamo di fronte a forme pervasive di controllo sociale che puntano a prevenire e repimere forme di dissenso sociale e politico. Le leggi approvate prima e dopo l'11 settembre rendono più sofisticati le forme di controllo sociale già operanti, ad esempio, nelle grandi metropoli. Basti pensare al sempre più pervasivo uso della videosorveglianza o alla definizione dei gruppi sociali a rischio su cui contentrare le operazioni di polizia.
Infine, sempre sul piano interno, pessime notizie vengono dal mondo del lavoro, dove siamo di fronte ad una fase di ripiegamento dell'offensiva sindacale. Ho già detto che molti quadri sindacali si sono pronunciati contro la guerra contro l'Iraq, ma uno degli effetti della guerra permanente al terrorismo é stato la riduzione del numero di vertenze sindacali. L'attuale clima di isteria xenofoba sta infatti avendo pesanti ripercussioni nel mondo del lavoro. Si pensi a quanto succede qui a Los Angeles dove il 40 % della forza lavoro é composta di latinos che la guerra al terrorismo ha messo nel mirino di tutte le agenzie dell'inquietante Department of Homeland Security. Una prodigiosa stagione di rivendicazioni spesso vincenti si é arrestata e dal giorno alla notte l'organizzazione di lotte operaie e sindacli é diventata molto difficile.
Su piano internazionale questo governo ha prodotto una profonda e probabilmente irreversibile frattura con il passato. l'attuale amministrazione ha rotto con il modello soft che ha segnato la presidenza di Bill Clinton. Erano quegli gli anni in cui il capitalismo mirava ad arginare i devastanti effetti della sua espansione a livello globale attraverso una gestione basata sul consenso. Clinton, dal posto di comando, operava con una gestione illuminata, magnanima, volta a non umiliare troppo i partners minori. Bush jr. opera, al contrario, secondo una strategia primordiale, sanguigna. Probabilmente, fra cento anni gli storici leggeranno questo periodo come la disperata risposta di un' insensata oligarchia alle tragiche contraddizioni eco-sistemiche poste dal modello di sviluppo capitalista. Una risposta feroce che impone il dominio americano sul pianeta al fine di tutelare, il più a lungo possibile, un insostenibile modello di sviluppo. Prima ancora dell'11 settembre, prima ancora dell'Iraq, questa amministrazione si è posta come obbiettivo ultimo quello di mantenere ad ogni costo l'egemonia americana nel mondo. Gli integralisti che occupano oggi la Casa Bianca vogliono prevenire l'avvento di una seconda superpotenza mondiale. In questo senso lo showdown finale sarà, non ora, con il mondo islamico ma bensì fra qualche decennio con l'oriente. Il vero target di questa svolta «imperialista» é la Cina.
Cosa fare dunque?
Non credo che la rivoluzione sia possibile ma (ride), credo che, a questo punto, sia assolutamente necessaria. Dobbiamo recuperare la convinzione che esiste una reale alternativa a questo modello di sviluppo. In questa ottica, da studioso dei fenomeni urbanistici, io credo che un aspetto fondamentale venga dal ripensare il ruolo della città moderna. Una radicale ridefinizione della idea di città è infatti, secondo me, la chiave di volta per cominciare a costruire una società realmente basata su principi di giustizia sociale ed eguaglianza. Il segreto é li'. Siamo in una fase in cui la maggior parte dell'umanità vive in ipertrofiche aree metropolitane, megalopoli che si estendono a macchia d'olio e come un cancro metastatizzano e divorano ogni risorsa disponibile. Dobbiamo invertire questa tendenza e recuperare stili di vita che incoraggino un uso razionale delle risorse. Dobbiamo privilegiare modi di vivere gli spazi urbani che favoriscano prassi di scambio ed un maggior utilizzo, in comune, delle risorse. Non ho in mente niente di frugale, al contrario. Siamo in un periodo in cui le moderne tecnologie e l'incredibile ricchezza materiale che ci circondano ci permettono di vivere con livelli di agiatezza straordinari. Dobbiamo solo arrivare ad una razionalizzazione, affinché questo incredibile livello di benessere sia possibile per tutti.
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6.3.03
March 05, 2003
Risiko in Medio Oriente
Di cielo, di terra e di mare: la macchina bellica contro l'Iraq
Nel Golfo si trovano in questo momento circa 250.000 soldati, e altri
sessantamila ne sono stati mobilitati ieri. Gli Stati uniti hanno inoltre
richiamato in servizio attivo circa 170mila militari della riserva e della
Guardia nazionale. COMANDO CENTRALE - Il «central command chief», generale
Tommy Franks, ha il suo quartier generale vicino alla base aerea di Al
Udeid, in Qatar. E' una sorta di «clone» del comando centrale di Tampa, in
Florida, ed è il luogo altamente tecnologico da dove dovrebbe essere diretto
l'attacco a Baghdad.
FORZE NAVALI - Con la partenza da San Diego della Nimiz, sono sei le
portaerei schierate per la guerra. Le americane Kitty Hawk, Lincoln e
Constellation sono già nel Golfo o nei suoi pressi, la Roosevelt e la Truman
sono nel Mediterraneo. La britannica Ark Royal è in viaggio insieme al suo
gruppo navale, con unità da sbarco, dragamine e un sottomarino nucleare,
mentre la Us Vinson pattuglia in Giappone. Ogni portaerei è seguita da un
gruppo navale che comprende circa sei incrociatori, cacciatorpediniere e
sottomarini, dotati di missili da crociera a medio raggio Tomahawk. Ogni
portaerei trasporta circa 75 velivoli, tra i quali 50 caccia. La base navale
principale è quella del Bahrain, sede della quinta flotta della US. Navy.
Un'altra base aeronavale, nell'Oceano Indiano, è quella britannica di Diego
Garcia. Tra le forze navali britanniche, una flotta di 16 navi con 4.000
Royal Marines.
FORZE DI TERRA - Centomila soldati e marines sono già in Kuwait, e il paese
attende anche i 60mila che la Turchia non sembra intenzionata a ospitare. La
base principale è Camp Doha, a una cinquantina di chilometri dal confine
iracheno. Gruppi navali che incrociano nel Golfo ospitano altre truppe. I
soldati britannici mobilitati fino a oggi sono 42mila
FORZE AEREE - Le basi aeree sono nell'Oman (tre, al-Sib, Thumrait e Masirah)
e in Turchia (Incirclik, abitualmente utilizzata dalle pattuglie che
controllano la no fly zone), più altre basi non precisate. Circa 400
velivoli sono sulle portaerei americane, e nell'area del Golfo sono stati
spostati bombardieri B-52, B-1B e B2, uno squadrone di Stealth F-117 (gli
«aerei invisibili»), caccia F-15C e F-15E, due squadroni di F-16CJ
specializzati nella guerra elettronica e aerei spia automatici Predator e
Global Hawk. A essi si aggiungono un centinaio di apparecchi britannici.
PIANI D'ATTACCO - I 500 aerei complessivamente disponibili dovrebbero
scaricare oltre 3.000 bombe «intelligenti» nelle prime 48 ore di guerra,
mentre sull'Iraq dovrebbero anche cadere fino a 700 missili cruise lanciati
dalle unità navali. La capacità di distruzione iniziale sarebbe almeno dieci
volte più potente di quella messa in campo nella guerra del Golfo del 1991 e
dovrebbe consentire un'avanzata lampo delle forze di terra da sud e da nord.
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5.3.03
Le armate dei guerrieri just in time
Intervista di Stefano Sensi a Mike Davis
La volontà imperiale degli Stati uniti di difendere un modello di sviluppo e la crescita di un movimento globale di protesta contro l'annunciata guerra contro l'Iraq. Parla lo storico e urbanista statunitense Mike Davis
Nel Golfo saranno impiegati nuovi sistemi di armamento e vedremo all'opera piccole e autonome unità di combattimento dotate di sofisticati gadget elettronici per elaborare in tempo reale il flusso continuo di informazioni e così modificare gli obiettivi militari
La galassia americana di fronte alla vigilia di una guerra che rappresenta uno shift epocale sia per quanto riguarda le stategie e le tecnologie militari che verranno impiegate, ma anche per il passaggio senza indugi ad una politica «imperiale» da parte del presidente George W. Bush dopo il periodo soft rappresentanto da Bill Clinton. Allo stesso tempo gli Usa sono il paese in cui si manifesta un movimento di «resistenza» che vive una fase di prodigioso successo. Cosa si agita in queste due «Americhe» apparentemente sempre più distanti a causa della «guerra al terrorismo»? Ne abbiamo parlato a Los Angeles con Mike Davis, lo storico e urbanista noto per alcuni saggi dedicati allo sviluppo metropolitano - La città di quarzo (manifestolibri) e Geografia della paura (Feltrinelli), dedicati entrambi a Los Angeles, e il non ancora tradotto Dead Cities -, nonché di studi sulle politiche repressive dell'immigrazione da parte dell'establishment - I latinos alla conquista dell'America (Feltrinelli) - o di grandi affreschi sulla nascita delle politiche imperialistiche - Olocausti vittoriani (Feltrinelli). Ed è quindi ovvio che il punto di partenza dell'intervista non possono che essere le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio.
Cosa pensi di questo movimento pacifista?
Sono affascinato dalla potenza espressa da questo movimento. Non mi riferisco solo alle dimensioni raggiunte ma anche, e soprattutto, all'eterogeneità e diversità che esprime. Impressionante é la sua diffusione capillare. Sono appena tornato dall'Arizona dove ho assistito ad incredibili manifestazioni in piccoli centri sperduti. A Flagstaff, per esempio, ci sono stati, sabato 15 Febbraio, migliaia di dimostranti in piazza, una cifra che considerato il numero totale di abitanti di questa piccola città ne fa probabilmente uno dei posti a più alto tasso di «resistenti» di tutto il pianeta. Persino qui a Los Angeles, nei sobborghi opulenti di Orange County, capitale mondiale del conservatorismo repubblicano e uno posti più conformisti di tutti gli Stati uniti, assistiamo a forme di dissenso diffuso che sorgono nei posti più inaspettati. Mi riferisco, ad esempio, alle peace walks all'interno dei centri commerciali che mettono magicamente insieme centinaia di attivisti ed incuriositi consumatori. Un fatto ampiamente ignorato dai media é la risonanza delle tematiche pacifiste all'interno del mondo sindacale. La maggior parte dei quadri, e questo vale anche per i sindacati che contano milioni di iscritti, si è infatti schierata decisamente contro la guerra.
C'é poi la dimensione globale, transnazionale, di questo movimento. Stiamo assistendo all'affermarsi del più grosso movimento globale di protesta mai esistito nella storia dell'umanità.
Il «New York Time» ha scritto che dal 15 febbraio ci sono due superpotenze nel mondo: gli Usa e l'opinione pubblica mondiale. Sei d'accordo con questa analisi?
Per quanto io stesso, come ho detto, sia estasiato dalla dimensione di questo movimento, penso che l'analisi del New York Times ne sopravvaluti il reale peso. Fino a che non riusciremo ad inceppare la macchina di guerra, la seconda superpotenza di cui parla il Times ha i piedi d'argilla. Certo, manifestazioni come quelle del 15 hanno un incredibile effetto nel catalizzare la scesa in campo di un sempre maggior numero di forze, ma se non si passa, come mi sembra stia succedendo in Europa, ad una fase di intensa attività di disobbedienza civile di massa, siamo destinati ad incidere solo in maniera marginale. Ma è in Europa che si sta giocando una delle partite più importanti. Se il movimento della pace riuscisse a far entrare in crisi uno dei tre governi - quello inglese, l'italiano o lo spagnolo - che sostengono Bush allora sì che si scatenerebbe un effetto domino con implicazioni importantissime. In Inghilterra mi sembra che i presupposti ci siano, visto l'opposizione sempre più articolata e imponente che sta crescendo contro Blair, persino all'interno del Labour party . Il movimento italiano sta mostrando un'incredibile creatività e determinazione con la campagna di boicottaggio dei «treni della morte» e chissà ...
E' una situazione fluida e dagli esiti imprevedibili. Forse non saremo in grado di evitare l'inizio della guerra, ma ne possiamo però condizionare la durata. Bush e Rumsfeld sperano ad esempio che quella contro l'Iraq sarà una guerra lampo. Nella loro lucida follia, si illudono che in pochi giorni sconfiggeranno l'esercito iracheno e che le truppe americane saranno accolte a braccia aperte dai festosi iracheni liberati. Sperano cioè in un «miracolo» che possa mettere a tacere il dissenso rispetto alle loro politiche espansioniste. Quello che è ragionevole supporre è invece che chi ha manifestato contro la guerra in questo periodo ritorni a casa così facilmente.
Parlando delle nuove tecnologie che verranno impiegate nella guerra, hai recentemente parlato di una vera rivoluzione in corso ....
Non sono io a dirlo. Sono gli strateghi del Pentagono che affermano che la prima guerra del Golfo, nonostante l'incredibile campagna mediatica sui bombardamenti «chirurgici», non è stata la prima guerra «moderna», quanto l'ultima guerra combattuta secondo uno schema tradizionale. Curiosando fra quello che le think-tanks militari hanno elaborato negli ultimi tempi ci si accorge che tutti gli anni `90 sono stati attraversati da una fondamentale ridefinizione di tattiche e strategie che ha portato a quella che Rumsfeld ha, appunto, definito «la rivoluzione». La guerra in Iraq dovrebbe rappresentare il banco di prova di questo cambio di paradigma. La novità non viene solamente dall'ulteriore salto tecnologico delle armi che saranno impiegate - bombe che, grazie alla tecnologia laser, sono in grado di colpire con precisione millimetrica, l'utilizzo di micronde e campi elettromagnetici per mettere ko comunicazioni o, infine, l'uso di aerei telecomandati. No, il cambiamento viene da un mutamento di paradigma che sposta l'organizzazione militare verso un modello a rete, un modo di fare la guerra che viene definito network centric warfare. Si applicano cioè alla macchina bellica i paradigmi che sono alla base dell'economia postfordista.
Infatti, il modello di riferimento, proposto dalle teste d'uovo del Pentagono è proprio quello leggero e «minimalista» che governa un colosso della distribuzione americana come la catena Wal-Mart. Si importano cioè quelle strategie, il just in time ad esempio, che regolano l'odierna produzione nella new economy. Ci si avvale infatti di quei principi di sincronizzazione, in real-time, dei processi produttivi e distributivi che fanno si che l'operatore di cassa, con la semplice lettura ottica del codice a barra di una merce qualsiasi, intervenga in maniera istantanea su produzione e stoccaggio dell'articolo venduto. Tradotto in termini militari, i rivoluzionari del Pentagono pensano di creare unità di combattimento leggere, ri-assemblate in tempo reale, che somministrino potenza letale commisurata a quelle che sono le immediate contingenze del campo di battaglia. Tale modello é reso oggi possibile grazie all'immensa potenza in termini di capacità di flusso di informazione delle reti moderne, coniugata con un esteso uso di tecnologie di videosorveglianza e monitoraggio tramite l'uso di una nuova generazione di gadgets elettronici come sensori miniaturizzati e minuscole videocamere robotizzate.
Ma il modello postfordista fornisce anche lo schema organizzativo dei processi decisionali. Nel nuovo paradigma leggero, le unità di combattimento sarebbero organizzate secondo un modello a reti orizzontali in uno stato di fluida ricombinazione permanente. Unità autonome che hanno potere decisionale immediato senza coinvolgimento della tradizionale catena di comando.
Si parla anche di nuovi approcci tattici..
E' previsto un utilizzo della forza non più secondo un modello lineare, fatto di incrementi progressivi. Si farà infatti uso di una strategia shock and awe, che procede attraverso l'erogazione di inaudita potenza distruttrice a sbalzi. Un modello in cui da una parte si isola il nemico polverizzando le infrastrutture della comunicazione e dall'altra si incrementa il caos del teatro di guerra procedendo ad una sistematica terrorizzazione della popolazione civile. E' ovvio che, al di là di qualsiasi considerazione etica, queste strategie pongono problemi di ordine logistico. Unità leggere ed autonome, così criticamente dipendenti dalla stabilità del flusso informazionale locale/globale, sono anche ovviamente assai vulnerabili. Cosa, infatti, potrebbe succedere se nel bel mezzo della battaglia tali networks venissero hackerati da terroristi, o molto più semplicemente da qualche brufoloso quindicenne del Midwest? In realtà il Pentagono affianca a questo schema «leggero» un segreto backup (piano di emergenza) «pesante»: il nucleare. Di fatto, è questo, il poco pubblicizzato obbiettivo reale che muove la crociata dei rivoluzionari. Rompere il tabù nucleare, far passare cioè nell'opinione pubblica, la legittimità di un uso sempre più routinario delle armi nucleari. Siamo di fronte ad un drammatico shift di paradigma, una escalation in cui l'uso del nucleare non è più la estrema ratio a cui ricorrere.
C'é infine un ulteriore terrificante scenario. Un analisi di quanto pubblicato negli ultimi anni sulla letteratura scientifica del settore, rivela come la ragione intrinseca per cui il governo americano ha attivamente sabotato la creazione di un trattato internazionale per la limitazione dello sviluppo di armi biologiche é perchè gli Usa stanno appunto lavorando alacremente alla messa a punto di un sempre più potente e devastante biological warfare.
Quale sarà il ruolo della «guerra di propaganda» in questo mutamento delle strategie militari?
Anche su questo versante i rivoluzionari del Pentagono si accingono ad operare un sostanziale salto di paradigma. Stiamo assistendo in questi giorni all'addestramento militare, un vero e proprio combat training, di centinaia di giornalisti dei principali media nazionali. Questa volta dunque, i media saranno presenti sul campo di battaglia. Una gigantesca operazione di public relation da parte del Pentagono. E' ovvio che dobbiamo farci ben poche illusioni su quelli che saranno i livelli di obbiettività offerti da questi operatori mediatici con l'elmetto.
E cosa accadrà negli Stati uniti?
Per prima cosa va registrata l'assenza dalla scena pubblica dell'area liberal del partito Democratico. A differenza di quanto succedeva negli anni `60, il movimento della pace non ha saputo ancora catalizzare, come avvenne allora, quelle forze della sinistra del partito democratico che fecero del rifiuto alla guerra la piattaforma per la candidatura di Kennedy. La cosa grave non è che la maggior parte dei repubblicani si sono persi dietro a questo folle avventurismo dell'amministrazione Bush, ma è che il partito Democratico ha perso qualsiasi contatto con la propria base.
Inoltre, negli Usa stiamo assistendo ad involuzione autoritaria senza precedenti. Dico senza precedenti, non perchè gli Stati uniti non abbiano nel passato conosciuto fasi di repressione di pari intensità. Da un punto di vista strettamente giuridico, le incredibili limitazioni alle garanzie e libertà personali contenute nell'Usa Patriot Act non sono certo peggiori di quanto accadde negli anni `20 o '50. Oggi ci troviamo di fronte a forme pervasive di controllo sociale che puntano a prevenire e repimere forme di dissenso sociale e politico. Le leggi approvate prima e dopo l'11 settembre rendono più sofisticati le forme di controllo sociale già operanti, ad esempio, nelle grandi metropoli. Basti pensare al sempre più pervasivo uso della videosorveglianza o alla definizione dei gruppi sociali a rischio su cui contentrare le operazioni di polizia.
Infine, sempre sul piano interno, pessime notizie vengono dal mondo del lavoro, dove siamo di fronte ad una fase di ripiegamento dell'offensiva sindacale. Ho già detto che molti quadri sindacali si sono pronunciati contro la guerra contro l'Iraq, ma uno degli effetti della guerra permanente al terrorismo é stato la riduzione del numero di vertenze sindacali. L'attuale clima di isteria xenofoba sta infatti avendo pesanti ripercussioni nel mondo del lavoro. Si pensi a quanto succede qui a Los Angeles dove il 40 % della forza lavoro é composta di latinos che la guerra al terrorismo ha messo nel mirino di tutte le agenzie dell'inquietante Department of Homeland Security. Una prodigiosa stagione di rivendicazioni spesso vincenti si é arrestata e dal giorno alla notte l'organizzazione di lotte operaie e sindacli é diventata molto difficile.
Su piano internazionale questo governo ha prodotto una profonda e probabilmente irreversibile frattura con il passato. l'attuale amministrazione ha rotto con il modello soft che ha segnato la presidenza di Bill Clinton. Erano quegli gli anni in cui il capitalismo mirava ad arginare i devastanti effetti della sua espansione a livello globale attraverso una gestione basata sul consenso. Clinton, dal posto di comando, operava con una gestione illuminata, magnanima, volta a non umiliare troppo i partners minori. Bush jr. opera, al contrario, secondo una strategia primordiale, sanguigna. Probabilmente, fra cento anni gli storici leggeranno questo periodo come la disperata risposta di un' insensata oligarchia alle tragiche contraddizioni eco-sistemiche poste dal modello di sviluppo capitalista. Una risposta feroce che impone il dominio americano sul pianeta al fine di tutelare, il più a lungo possibile, un insostenibile modello di sviluppo. Prima ancora dell'11 settembre, prima ancora dell'Iraq, questa amministrazione si è posta come obbiettivo ultimo quello di mantenere ad ogni costo l'egemonia americana nel mondo. Gli integralisti che occupano oggi la Casa Bianca vogliono prevenire l'avvento di una seconda superpotenza mondiale. In questo senso lo showdown finale sarà, non ora, con il mondo islamico ma bensì fra qualche decennio con l'oriente. Il vero target di questa svolta «imperialista» é la Cina.
Cosa fare dunque?
Non credo che la rivoluzione sia possibile ma (ride), credo che, a questo punto, sia assolutamente necessaria. Dobbiamo recuperare la convinzione che esiste una reale alternativa a questo modello di sviluppo. In questa ottica, da studioso dei fenomeni urbanistici, io credo che un aspetto fondamentale venga dal ripensare il ruolo della città moderna. Una radicale ridefinizione della idea di città è infatti, secondo me, la chiave di volta per cominciare a costruire una società realmente basata su principi di giustizia sociale ed eguaglianza. Il segreto é li'. Siamo in una fase in cui la maggior parte dell'umanità vive in ipertrofiche aree metropolitane, megalopoli che si estendono a macchia d'olio e come un cancro metastatizzano e divorano ogni risorsa disponibile. Dobbiamo invertire questa tendenza e recuperare stili di vita che incoraggino un uso razionale delle risorse. Dobbiamo privilegiare modi di vivere gli spazi urbani che favoriscano prassi di scambio ed un maggior utilizzo, in comune, delle risorse. Non ho in mente niente di frugale, al contrario. Siamo in un periodo in cui le moderne tecnologie e l'incredibile ricchezza materiale che ci circondano ci permettono di vivere con livelli di agiatezza straordinari. Dobbiamo solo arrivare ad una razionalizzazione, affinché questo incredibile livello di benessere sia possibile per tutti.
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5.3.03
Le armate dei guerrieri just in time
Intervista di Stefano Sensi a Mike Davis
La galassia americana di fronte alla vigilia di una guerra che rappresenta uno shift epocale sia per quanto riguarda le stategie e le tecnologie militari che verranno impiegate, ma anche per il passaggio senza indugi ad una politica «imperiale» da parte del presidente George W. Bush dopo il periodo soft rappresentanto da Bill Clinton. Allo stesso tempo gli Usa sono il paese in cui si manifesta un movimento di «resistenza» che vive una fase di prodigioso successo. Cosa si agita in queste due «Americhe» apparentemente sempre più distanti a causa della «guerra al terrorismo»? Ne abbiamo parlato a Los Angeles con Mike Davis, lo storico e urbanista noto per alcuni saggi dedicati allo sviluppo metropolitano - La città di quarzo (manifestolibri) e Geografia della paura (Feltrinelli), dedicati entrambi a Los Angeles, e il non ancora tradotto Dead Cities -, nonché di studi sulle politiche repressive dell'immigrazione da parte dell'establishment - I latinos alla conquista dell'America (Feltrinelli) - o di grandi affreschi sulla nascita delle politiche imperialistiche - Olocausti vittoriani (Feltrinelli). Ed è quindi ovvio che il punto di partenza dell'intervista non possono che essere le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio.
Cosa pensi di questo movimento pacifista?
Sono affascinato dalla potenza espressa da questo movimento. Non mi riferisco solo alle dimensioni raggiunte ma anche, e soprattutto, all'eterogeneità e diversità che esprime. Impressionante é la sua diffusione capillare. Sono appena tornato dall'Arizona dove ho assistito ad incredibili manifestazioni in piccoli centri sperduti. A Flagstaff, per esempio, ci sono stati, sabato 15 Febbraio, migliaia di dimostranti in piazza, una cifra che considerato il numero totale di abitanti di questa piccola città ne fa probabilmente uno dei posti a più alto tasso di «resistenti» di tutto il pianeta. Persino qui a Los Angeles, nei sobborghi opulenti di Orange County, capitale mondiale del conservatorismo repubblicano e uno posti più conformisti di tutti gli Stati uniti, assistiamo a forme di dissenso diffuso che sorgono nei posti più inaspettati. Mi riferisco, ad esempio, alle peace walks all'interno dei centri commerciali che mettono magicamente insieme centinaia di attivisti ed incuriositi consumatori. Un fatto ampiamente ignorato dai media é la risonanza delle tematiche pacifiste all'interno del mondo sindacale. La maggior parte dei quadri, e questo vale anche per i sindacati che contano milioni di iscritti, si è infatti schierata decisamente contro la guerra.
C'é poi la dimensione globale, transnazionale, di questo movimento. Stiamo assistendo all'affermarsi del più grosso movimento globale di protesta mai esistito nella storia dell'umanità.
Il «New York Time» ha scritto che dal 15 febbraio ci sono due superpotenze nel mondo: gli Usa e l'opinione pubblica mondiale. Sei d'accordo con questa analisi?
Per quanto io stesso, come ho detto, sia estasiato dalla dimensione di questo movimento, penso che l'analisi del New York Times ne sopravvaluti il reale peso. Fino a che non riusciremo ad inceppare la macchina di guerra, la seconda superpotenza di cui parla il Times ha i piedi d'argilla. Certo, manifestazioni come quelle del 15 hanno un incredibile effetto nel catalizzare la scesa in campo di un sempre maggior numero di forze, ma se non si passa, come mi sembra stia succedendo in Europa, ad una fase di intensa attività di disobbedienza civile di massa, siamo destinati ad incidere solo in maniera marginale. Ma è in Europa che si sta giocando una delle partite più importanti. Se il movimento della pace riuscisse a far entrare in crisi uno dei tre governi - quello inglese, l'italiano o lo spagnolo - che sostengono Bush allora sì che si scatenerebbe un effetto domino con implicazioni importantissime. In Inghilterra mi sembra che i presupposti ci siano, visto l'opposizione sempre più articolata e imponente che sta crescendo contro Blair, persino all'interno del Labour party . Il movimento italiano sta mostrando un'incredibile creatività e determinazione con la campagna di boicottaggio dei «treni della morte» e chissà ...
E' una situazione fluida e dagli esiti imprevedibili. Forse non saremo in grado di evitare l'inizio della guerra, ma ne possiamo però condizionare la durata. Bush e Rumsfeld sperano ad esempio che quella contro l'Iraq sarà una guerra lampo. Nella loro lucida follia, si illudono che in pochi giorni sconfiggeranno l'esercito iracheno e che le truppe americane saranno accolte a braccia aperte dai festosi iracheni liberati. Sperano cioè in un «miracolo» che possa mettere a tacere il dissenso rispetto alle loro politiche espansioniste. Quello che è ragionevole supporre è invece che chi ha manifestato contro la guerra in questo periodo ritorni a casa così facilmente.
Parlando delle nuove tecnologie che verranno impiegate nella guerra, hai recentemente parlato di una vera rivoluzione in corso ....
Non sono io a dirlo. Sono gli strateghi del Pentagono che affermano che la prima guerra del Golfo, nonostante l'incredibile campagna mediatica sui bombardamenti «chirurgici», non è stata la prima guerra «moderna», quanto l'ultima guerra combattuta secondo uno schema tradizionale. Curiosando fra quello che le think-tanks militari hanno elaborato negli ultimi tempi ci si accorge che tutti gli anni `90 sono stati attraversati da una fondamentale ridefinizione di tattiche e strategie che ha portato a quella che Rumsfeld ha, appunto, definito «la rivoluzione». La guerra in Iraq dovrebbe rappresentare il banco di prova di questo cambio di paradigma. La novità non viene solamente dall'ulteriore salto tecnologico delle armi che saranno impiegate - bombe che, grazie alla tecnologia laser, sono in grado di colpire con precisione millimetrica, l'utilizzo di micronde e campi elettromagnetici per mettere ko comunicazioni o, infine, l'uso di aerei telecomandati. No, il cambiamento viene da un mutamento di paradigma che sposta l'organizzazione militare verso un modello a rete, un modo di fare la guerra che viene definito network centric warfare. Si applicano cioè alla macchina bellica i paradigmi che sono alla base dell'economia postfordista.
Infatti, il modello di riferimento, proposto dalle teste d'uovo del Pentagono è proprio quello leggero e «minimalista» che governa un colosso della distribuzione americana come la catena Wal-Mart. Si importano cioè quelle strategie, il just in time ad esempio, che regolano l'odierna produzione nella new economy. Ci si avvale infatti di quei principi di sincronizzazione, in real-time, dei processi produttivi e distributivi che fanno si che l'operatore di cassa, con la semplice lettura ottica del codice a barra di una merce qualsiasi, intervenga in maniera istantanea su produzione e stoccaggio dell'articolo venduto. Tradotto in termini militari, i rivoluzionari del Pentagono pensano di creare unità di combattimento leggere, ri-assemblate in tempo reale, che somministrino potenza letale commisurata a quelle che sono le immediate contingenze del campo di battaglia. Tale modello é reso oggi possibile grazie all'immensa potenza in termini di capacità di flusso di informazione delle reti moderne, coniugata con un esteso uso di tecnologie di videosorveglianza e monitoraggio tramite l'uso di una nuova generazione di gadgets elettronici come sensori miniaturizzati e minuscole videocamere robotizzate.
Ma il modello postfordista fornisce anche lo schema organizzativo dei processi decisionali. Nel nuovo paradigma leggero, le unità di combattimento sarebbero organizzate secondo un modello a reti orizzontali in uno stato di fluida ricombinazione permanente. Unità autonome che hanno potere decisionale immediato senza coinvolgimento della tradizionale catena di comando.
Si parla anche di nuovi approcci tattici..
E' previsto un utilizzo della forza non più secondo un modello lineare, fatto di incrementi progressivi. Si farà infatti uso di una strategia shock and awe, che procede attraverso l'erogazione di inaudita potenza distruttrice a sbalzi. Un modello in cui da una parte si isola il nemico polverizzando le infrastrutture della comunicazione e dall'altra si incrementa il caos del teatro di guerra procedendo ad una sistematica terrorizzazione della popolazione civile. E' ovvio che, al di là di qualsiasi considerazione etica, queste strategie pongono problemi di ordine logistico. Unità leggere ed autonome, così criticamente dipendenti dalla stabilità del flusso informazionale locale/globale, sono anche ovviamente assai vulnerabili. Cosa, infatti, potrebbe succedere se nel bel mezzo della battaglia tali networks venissero hackerati da terroristi, o molto più semplicemente da qualche brufoloso quindicenne del Midwest? In realtà il Pentagono affianca a questo schema «leggero» un segreto backup (piano di emergenza) «pesante»: il nucleare. Di fatto, è questo, il poco pubblicizzato obbiettivo reale che muove la crociata dei rivoluzionari. Rompere il tabù nucleare, far passare cioè nell'opinione pubblica, la legittimità di un uso sempre più routinario delle armi nucleari. Siamo di fronte ad un drammatico shift di paradigma, una escalation in cui l'uso del nucleare non è più la estrema ratio a cui ricorrere.
C'é infine un ulteriore terrificante scenario. Un analisi di quanto pubblicato negli ultimi anni sulla letteratura scientifica del settore, rivela come la ragione intrinseca per cui il governo americano ha attivamente sabotato la creazione di un trattato internazionale per la limitazione dello sviluppo di armi biologiche é perchè gli Usa stanno appunto lavorando alacremente alla messa a punto di un sempre più potente e devastante biological warfare.
Quale sarà il ruolo della «guerra di propaganda» in questo mutamento delle strategie militari?
Anche su questo versante i rivoluzionari del Pentagono si accingono ad operare un sostanziale salto di paradigma. Stiamo assistendo in questi giorni all'addestramento militare, un vero e proprio combat training, di centinaia di giornalisti dei principali media nazionali. Questa volta dunque, i media saranno presenti sul campo di battaglia. Una gigantesca operazione di public relation da parte del Pentagono. E' ovvio che dobbiamo farci ben poche illusioni su quelli che saranno i livelli di obbiettività offerti da questi operatori mediatici con l'elmetto.
E cosa accadrà negli Stati uniti?
Per prima cosa va registrata l'assenza dalla scena pubblica dell'area liberal del partito Democratico. A differenza di quanto succedeva negli anni `60, il movimento della pace non ha saputo ancora catalizzare, come avvenne allora, quelle forze della sinistra del partito democratico che fecero del rifiuto alla guerra la piattaforma per la candidatura di Kennedy. La cosa grave non è che la maggior parte dei repubblicani si sono persi dietro a questo folle avventurismo dell'amministrazione Bush, ma è che il partito Democratico ha perso qualsiasi contatto con la propria base.
Inoltre, negli Usa stiamo assistendo ad involuzione autoritaria senza precedenti. Dico senza precedenti, non perchè gli Stati uniti non abbiano nel passato conosciuto fasi di repressione di pari intensità. Da un punto di vista strettamente giuridico, le incredibili limitazioni alle garanzie e libertà personali contenute nell'Usa Patriot Act non sono certo peggiori di quanto accadde negli anni `20 o '50. Oggi ci troviamo di fronte a forme pervasive di controllo sociale che puntano a prevenire e repimere forme di dissenso sociale e politico. Le leggi approvate prima e dopo l'11 settembre rendono più sofisticati le forme di controllo sociale già operanti, ad esempio, nelle grandi metropoli. Basti pensare al sempre più pervasivo uso della videosorveglianza o alla definizione dei gruppi sociali a rischio su cui contentrare le operazioni di polizia.
Infine, sempre sul piano interno, pessime notizie vengono dal mondo del lavoro, dove siamo di fronte ad una fase di ripiegamento dell'offensiva sindacale. Ho già detto che molti quadri sindacali si sono pronunciati contro la guerra contro l'Iraq, ma uno degli effetti della guerra permanente al terrorismo é stato la riduzione del numero di vertenze sindacali. L'attuale clima di isteria xenofoba sta infatti avendo pesanti ripercussioni nel mondo del lavoro. Si pensi a quanto succede qui a Los Angeles dove il 40 % della forza lavoro é composta di latinos che la guerra al terrorismo ha messo nel mirino di tutte le agenzie dell'inquietante Department of Homeland Security. Una prodigiosa stagione di rivendicazioni spesso vincenti si é arrestata e dal giorno alla notte l'organizzazione di lotte operaie e sindacli é diventata molto difficile.
Su piano internazionale questo governo ha prodotto una profonda e probabilmente irreversibile frattura con il passato. l'attuale amministrazione ha rotto con il modello soft che ha segnato la presidenza di Bill Clinton. Erano quegli gli anni in cui il capitalismo mirava ad arginare i devastanti effetti della sua espansione a livello globale attraverso una gestione basata sul consenso. Clinton, dal posto di comando, operava con una gestione illuminata, magnanima, volta a non umiliare troppo i partners minori. Bush jr. opera, al contrario, secondo una strategia primordiale, sanguigna. Probabilmente, fra cento anni gli storici leggeranno questo periodo come la disperata risposta di un' insensata oligarchia alle tragiche contraddizioni eco-sistemiche poste dal modello di sviluppo capitalista. Una risposta feroce che impone il dominio americano sul pianeta al fine di tutelare, il più a lungo possibile, un insostenibile modello di sviluppo. Prima ancora dell'11 settembre, prima ancora dell'Iraq, questa amministrazione si è posta come obbiettivo ultimo quello di mantenere ad ogni costo l'egemonia americana nel mondo. Gli integralisti che occupano oggi la Casa Bianca vogliono prevenire l'avvento di una seconda superpotenza mondiale. In questo senso lo showdown finale sarà, non ora, con il mondo islamico ma bensì fra qualche decennio con l'oriente. Il vero target di questa svolta «imperialista» é la Cina.
Cosa fare dunque?
Non credo che la rivoluzione sia possibile ma (ride), credo che, a questo punto, sia assolutamente necessaria. Dobbiamo recuperare la convinzione che esiste una reale alternativa a questo modello di sviluppo. In questa ottica, da studioso dei fenomeni urbanistici, io credo che un aspetto fondamentale venga dal ripensare il ruolo della città moderna. Una radicale ridefinizione della idea di città è infatti, secondo me, la chiave di volta per cominciare a costruire una società realmente basata su principi di giustizia sociale ed eguaglianza. Il segreto é li'. Siamo in una fase in cui la maggior parte dell'umanità vive in ipertrofiche aree metropolitane, megalopoli che si estendono a macchia d'olio e come un cancro metastatizzano e divorano ogni risorsa disponibile. Dobbiamo invertire questa tendenza e recuperare stili di vita che incoraggino un uso razionale delle risorse. Dobbiamo privilegiare modi di vivere gli spazi urbani che favoriscano prassi di scambio ed un maggior utilizzo, in comune, delle risorse. Non ho in mente niente di frugale, al contrario. Siamo in un periodo in cui le moderne tecnologie e l'incredibile ricchezza materiale che ci circondano ci permettono di vivere con livelli di agiatezza straordinari. Dobbiamo solo arrivare ad una razionalizzazione, affinché questo incredibile livello di benessere sia possibile per tutti.
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5.3.03
Le armate dei guerrieri just in time
Intervista di Stefano Sensi a Mike Davis
La volontà imperiale degli Stati uniti di difendere un modello di sviluppo e la crescita di un movimento globale di protesta contro l'annunciata guerra contro l'Iraq. Parla lo storico e urbanista statunitense Mike Davis
Nel Golfo saranno impiegati nuovi sistemi di armamento e vedremo all'opera piccole e autonome unità di combattimento dotate di sofisticati gadget elettronici per elaborare in tempo reale il flusso continuo di informazioni e così modificare gli obiettivi militari
La galassia americana di fronte alla vigilia di una guerra che rappresenta uno shift epocale sia per quanto riguarda le stategie e le tecnologie militari che verranno impiegate, ma anche per il passaggio senza indugi ad una politica «imperiale» da parte del presidente George W. Bush dopo il periodo soft rappresentanto da Bill Clinton. Allo stesso tempo gli Usa sono il paese in cui si manifesta un movimento di «resistenza» che vive una fase di prodigioso successo. Cosa si agita in queste due «Americhe» apparentemente sempre più distanti a causa della «guerra al terrorismo»? Ne abbiamo parlato a Los Angeles con Mike Davis, lo storico e urbanista noto per alcuni saggi dedicati allo sviluppo metropolitano - La città di quarzo (manifestolibri) e Geografia della paura (Feltrinelli), dedicati entrambi a Los Angeles, e il non ancora tradotto Dead Cities -, nonché di studi sulle politiche repressive dell'immigrazione da parte dell'establishment - I latinos alla conquista dell'America (Feltrinelli) - o di grandi affreschi sulla nascita delle politiche imperialistiche - Olocausti vittoriani (Feltrinelli). Ed è quindi ovvio che il punto di partenza dell'intervista non possono che essere le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio.
Cosa pensi di questo movimento pacifista?
Sono affascinato dalla potenza espressa da questo movimento. Non mi riferisco solo alle dimensioni raggiunte ma anche, e soprattutto, all'eterogeneità e diversità che esprime. Impressionante é la sua diffusione capillare. Sono appena tornato dall'Arizona dove ho assistito ad incredibili manifestazioni in piccoli centri sperduti. A Flagstaff, per esempio, ci sono stati, sabato 15 Febbraio, migliaia di dimostranti in piazza, una cifra che considerato il numero totale di abitanti di questa piccola città ne fa probabilmente uno dei posti a più alto tasso di «resistenti» di tutto il pianeta. Persino qui a Los Angeles, nei sobborghi opulenti di Orange County, capitale mondiale del conservatorismo repubblicano e uno posti più conformisti di tutti gli Stati uniti, assistiamo a forme di dissenso diffuso che sorgono nei posti più inaspettati. Mi riferisco, ad esempio, alle peace walks all'interno dei centri commerciali che mettono magicamente insieme centinaia di attivisti ed incuriositi consumatori. Un fatto ampiamente ignorato dai media é la risonanza delle tematiche pacifiste all'interno del mondo sindacale. La maggior parte dei quadri, e questo vale anche per i sindacati che contano milioni di iscritti, si è infatti schierata decisamente contro la guerra.
C'é poi la dimensione globale, transnazionale, di questo movimento. Stiamo assistendo all'affermarsi del più grosso movimento globale di protesta mai esistito nella storia dell'umanità.
Il «New York Time» ha scritto che dal 15 febbraio ci sono due superpotenze nel mondo: gli Usa e l'opinione pubblica mondiale. Sei d'accordo con questa analisi?
Per quanto io stesso, come ho detto, sia estasiato dalla dimensione di questo movimento, penso che l'analisi del New York Times ne sopravvaluti il reale peso. Fino a che non riusciremo ad inceppare la macchina di guerra, la seconda superpotenza di cui parla il Times ha i piedi d'argilla. Certo, manifestazioni come quelle del 15 hanno un incredibile effetto nel catalizzare la scesa in campo di un sempre maggior numero di forze, ma se non si passa, come mi sembra stia succedendo in Europa, ad una fase di intensa attività di disobbedienza civile di massa, siamo destinati ad incidere solo in maniera marginale. Ma è in Europa che si sta giocando una delle partite più importanti. Se il movimento della pace riuscisse a far entrare in crisi uno dei tre governi - quello inglese, l'italiano o lo spagnolo - che sostengono Bush allora sì che si scatenerebbe un effetto domino con implicazioni importantissime. In Inghilterra mi sembra che i presupposti ci siano, visto l'opposizione sempre più articolata e imponente che sta crescendo contro Blair, persino all'interno del Labour party . Il movimento italiano sta mostrando un'incredibile creatività e determinazione con la campagna di boicottaggio dei «treni della morte» e chissà ...
E' una situazione fluida e dagli esiti imprevedibili. Forse non saremo in grado di evitare l'inizio della guerra, ma ne possiamo però condizionare la durata. Bush e Rumsfeld sperano ad esempio che quella contro l'Iraq sarà una guerra lampo. Nella loro lucida follia, si illudono che in pochi giorni sconfiggeranno l'esercito iracheno e che le truppe americane saranno accolte a braccia aperte dai festosi iracheni liberati. Sperano cioè in un «miracolo» che possa mettere a tacere il dissenso rispetto alle loro politiche espansioniste. Quello che è ragionevole supporre è invece che chi ha manifestato contro la guerra in questo periodo ritorni a casa così facilmente.
Parlando delle nuove tecnologie che verranno impiegate nella guerra, hai recentemente parlato di una vera rivoluzione in corso ....
Non sono io a dirlo. Sono gli strateghi del Pentagono che affermano che la prima guerra del Golfo, nonostante l'incredibile campagna mediatica sui bombardamenti «chirurgici», non è stata la prima guerra «moderna», quanto l'ultima guerra combattuta secondo uno schema tradizionale. Curiosando fra quello che le think-tanks militari hanno elaborato negli ultimi tempi ci si accorge che tutti gli anni `90 sono stati attraversati da una fondamentale ridefinizione di tattiche e strategie che ha portato a quella che Rumsfeld ha, appunto, definito «la rivoluzione». La guerra in Iraq dovrebbe rappresentare il banco di prova di questo cambio di paradigma. La novità non viene solamente dall'ulteriore salto tecnologico delle armi che saranno impiegate - bombe che, grazie alla tecnologia laser, sono in grado di colpire con precisione millimetrica, l'utilizzo di micronde e campi elettromagnetici per mettere ko comunicazioni o, infine, l'uso di aerei telecomandati. No, il cambiamento viene da un mutamento di paradigma che sposta l'organizzazione militare verso un modello a rete, un modo di fare la guerra che viene definito network centric warfare. Si applicano cioè alla macchina bellica i paradigmi che sono alla base dell'economia postfordista.
Infatti, il modello di riferimento, proposto dalle teste d'uovo del Pentagono è proprio quello leggero e «minimalista» che governa un colosso della distribuzione americana come la catena Wal-Mart. Si importano cioè quelle strategie, il just in time ad esempio, che regolano l'odierna produzione nella new economy. Ci si avvale infatti di quei principi di sincronizzazione, in real-time, dei processi produttivi e distributivi che fanno si che l'operatore di cassa, con la semplice lettura ottica del codice a barra di una merce qualsiasi, intervenga in maniera istantanea su produzione e stoccaggio dell'articolo venduto. Tradotto in termini militari, i rivoluzionari del Pentagono pensano di creare unità di combattimento leggere, ri-assemblate in tempo reale, che somministrino potenza letale commisurata a quelle che sono le immediate contingenze del campo di battaglia. Tale modello é reso oggi possibile grazie all'immensa potenza in termini di capacità di flusso di informazione delle reti moderne, coniugata con un esteso uso di tecnologie di videosorveglianza e monitoraggio tramite l'uso di una nuova generazione di gadgets elettronici come sensori miniaturizzati e minuscole videocamere robotizzate.
Ma il modello postfordista fornisce anche lo schema organizzativo dei processi decisionali. Nel nuovo paradigma leggero, le unità di combattimento sarebbero organizzate secondo un modello a reti orizzontali in uno stato di fluida ricombinazione permanente. Unità autonome che hanno potere decisionale immediato senza coinvolgimento della tradizionale catena di comando.
Si parla anche di nuovi approcci tattici..
E' previsto un utilizzo della forza non più secondo un modello lineare, fatto di incrementi progressivi. Si farà infatti uso di una strategia shock and awe, che procede attraverso l'erogazione di inaudita potenza distruttrice a sbalzi. Un modello in cui da una parte si isola il nemico polverizzando le infrastrutture della comunicazione e dall'altra si incrementa il caos del teatro di guerra procedendo ad una sistematica terrorizzazione della popolazione civile. E' ovvio che, al di là di qualsiasi considerazione etica, queste strategie pongono problemi di ordine logistico. Unità leggere ed autonome, così criticamente dipendenti dalla stabilità del flusso informazionale locale/globale, sono anche ovviamente assai vulnerabili. Cosa, infatti, potrebbe succedere se nel bel mezzo della battaglia tali networks venissero hackerati da terroristi, o molto più semplicemente da qualche brufoloso quindicenne del Midwest? In realtà il Pentagono affianca a questo schema «leggero» un segreto backup (piano di emergenza) «pesante»: il nucleare. Di fatto, è questo, il poco pubblicizzato obbiettivo reale che muove la crociata dei rivoluzionari. Rompere il tabù nucleare, far passare cioè nell'opinione pubblica, la legittimità di un uso sempre più routinario delle armi nucleari. Siamo di fronte ad un drammatico shift di paradigma, una escalation in cui l'uso del nucleare non è più la estrema ratio a cui ricorrere.
C'é infine un ulteriore terrificante scenario. Un analisi di quanto pubblicato negli ultimi anni sulla letteratura scientifica del settore, rivela come la ragione intrinseca per cui il governo americano ha attivamente sabotato la creazione di un trattato internazionale per la limitazione dello sviluppo di armi biologiche é perchè gli Usa stanno appunto lavorando alacremente alla messa a punto di un sempre più potente e devastante biological warfare.
Quale sarà il ruolo della «guerra di propaganda» in questo mutamento delle strategie militari?
Anche su questo versante i rivoluzionari del Pentagono si accingono ad operare un sostanziale salto di paradigma. Stiamo assistendo in questi giorni all'addestramento militare, un vero e proprio combat training, di centinaia di giornalisti dei principali media nazionali. Questa volta dunque, i media saranno presenti sul campo di battaglia. Una gigantesca operazione di public relation da parte del Pentagono. E' ovvio che dobbiamo farci ben poche illusioni su quelli che saranno i livelli di obbiettività offerti da questi operatori mediatici con l'elmetto.
E cosa accadrà negli Stati uniti?
Per prima cosa va registrata l'assenza dalla scena pubblica dell'area liberal del partito Democratico. A differenza di quanto succedeva negli anni `60, il movimento della pace non ha saputo ancora catalizzare, come avvenne allora, quelle forze della sinistra del partito democratico che fecero del rifiuto alla guerra la piattaforma per la candidatura di Kennedy. La cosa grave non è che la maggior parte dei repubblicani si sono persi dietro a questo folle avventurismo dell'amministrazione Bush, ma è che il partito Democratico ha perso qualsiasi contatto con la propria base.
Inoltre, negli Usa stiamo assistendo ad involuzione autoritaria senza precedenti. Dico senza precedenti, non perchè gli Stati uniti non abbiano nel passato conosciuto fasi di repressione di pari intensità. Da un punto di vista strettamente giuridico, le incredibili limitazioni alle garanzie e libertà personali contenute nell'Usa Patriot Act non sono certo peggiori di quanto accadde negli anni `20 o '50. Oggi ci troviamo di fronte a forme pervasive di controllo sociale che puntano a prevenire e repimere forme di dissenso sociale e politico. Le leggi approvate prima e dopo l'11 settembre rendono più sofisticati le forme di controllo sociale già operanti, ad esempio, nelle grandi metropoli. Basti pensare al sempre più pervasivo uso della videosorveglianza o alla definizione dei gruppi sociali a rischio su cui contentrare le operazioni di polizia.
Infine, sempre sul piano interno, pessime notizie vengono dal mondo del lavoro, dove siamo di fronte ad una fase di ripiegamento dell'offensiva sindacale. Ho già detto che molti quadri sindacali si sono pronunciati contro la guerra contro l'Iraq, ma uno degli effetti della guerra permanente al terrorismo é stato la riduzione del numero di vertenze sindacali. L'attuale clima di isteria xenofoba sta infatti avendo pesanti ripercussioni nel mondo del lavoro. Si pensi a quanto succede qui a Los Angeles dove il 40 % della forza lavoro é composta di latinos che la guerra al terrorismo ha messo nel mirino di tutte le agenzie dell'inquietante Department of Homeland Security. Una prodigiosa stagione di rivendicazioni spesso vincenti si é arrestata e dal giorno alla notte l'organizzazione di lotte operaie e sindacli é diventata molto difficile.
Su piano internazionale questo governo ha prodotto una profonda e probabilmente irreversibile frattura con il passato. l'attuale amministrazione ha rotto con il modello soft che ha segnato la presidenza di Bill Clinton. Erano quegli gli anni in cui il capitalismo mirava ad arginare i devastanti effetti della sua espansione a livello globale attraverso una gestione basata sul consenso. Clinton, dal posto di comando, operava con una gestione illuminata, magnanima, volta a non umiliare troppo i partners minori. Bush jr. opera, al contrario, secondo una strategia primordiale, sanguigna. Probabilmente, fra cento anni gli storici leggeranno questo periodo come la disperata risposta di un' insensata oligarchia alle tragiche contraddizioni eco-sistemiche poste dal modello di sviluppo capitalista. Una risposta feroce che impone il dominio americano sul pianeta al fine di tutelare, il più a lungo possibile, un insostenibile modello di sviluppo. Prima ancora dell'11 settembre, prima ancora dell'Iraq, questa amministrazione si è posta come obbiettivo ultimo quello di mantenere ad ogni costo l'egemonia americana nel mondo. Gli integralisti che occupano oggi la Casa Bianca vogliono prevenire l'avvento di una seconda superpotenza mondiale. In questo senso lo showdown finale sarà, non ora, con il mondo islamico ma bensì fra qualche decennio con l'oriente. Il vero target di questa svolta «imperialista» é la Cina.
Cosa fare dunque?
Non credo che la rivoluzione sia possibile ma (ride), credo che, a questo punto, sia assolutamente necessaria. Dobbiamo recuperare la convinzione che esiste una reale alternativa a questo modello di sviluppo. In questa ottica, da studioso dei fenomeni urbanistici, io credo che un aspetto fondamentale venga dal ripensare il ruolo della città moderna. Una radicale ridefinizione della idea di città è infatti, secondo me, la chiave di volta per cominciare a costruire una società realmente basata su principi di giustizia sociale ed eguaglianza. Il segreto é li'. Siamo in una fase in cui la maggior parte dell'umanità vive in ipertrofiche aree metropolitane, megalopoli che si estendono a macchia d'olio e come un cancro metastatizzano e divorano ogni risorsa disponibile. Dobbiamo invertire questa tendenza e recuperare stili di vita che incoraggino un uso razionale delle risorse. Dobbiamo privilegiare modi di vivere gli spazi urbani che favoriscano prassi di scambio ed un maggior utilizzo, in comune, delle risorse. Non ho in mente niente di frugale, al contrario. Siamo in un periodo in cui le moderne tecnologie e l'incredibile ricchezza materiale che ci circondano ci permettono di vivere con livelli di agiatezza straordinari. Dobbiamo solo arrivare ad una razionalizzazione, affinché questo incredibile livello di benessere sia possibile per tutti.
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